venerdì 11 agosto 2017

Come farsi massacrare dal proprio editor e vivere (quasi) felici

Sono abituato alle terapie d’urto. Anzi, a dire il vero me le vado proprio a cercare: penso siano il modo migliore per testare il livello di passione che crediamo di avere. Ho tentato strade alternative, ho cercato una porta sul retro, più comoda e meno violenta, ma con scarsi risultati. E così ho deciso di lasciar perdere.

Cosa c’entra questa premessa con l’argomento “editing”? Calza a pennello perché, quando mi sono cimentato con questa misteriosa pratica, non ho voluto smentire le mie masochistiche abitudini e ho sperimentato una “prima volta” piuttosto brutale. Talmente brutale da farmi capire quanto ci tenessi a questo maledetto mestiere, e quanto fossi disposto a mettere in gioco pur di non mollare. D’altronde, le terapie d’urto servono a quello.


Avevo coccolato per mesi il mio romanzetto d’esordio, impaginandolo con cura e stampando un capitolo nuovo appena lo finivo, per vedere la pila di carta farsi massiccia e sognare il momento in cui sarebbe diventata un libro vero. Amavo ogni parola, ogni aggettivo e ogni virgola. Rileggevo frasi e passaggi e mi facevo i complimenti da solo, immaginando quanto sarebbe cambiata la letteratura dopo l’avvento di un capolavoro simile.


Poi ho scelto un editor. Il più cattivo. 


Avevo conosciuto Luca Scarlini a un corso di scrittura creativa e la sua fama di Panzer della parola scritta, unito al suo carattere intransigente e perfezionista, mi avevano conquistato. Era l’uomo giusto. Il mio ego si era, con molta ingenuità, aspettato una reazione entusiasta con lusinghe e sguardi compiaciuti, e un po’ d’orgoglio per aver scovato, in uno sconosciuto ragazzetto di provincia, il nuovo genio della narrativa contemporanea. Invece andò così.

Ero al Salone del Libro di Torino, aspettai che terminasse una conferenza e mi avvicinai. Gli porsi il plico, lui lo guardò e disse: «Il titolo fa schifo. Lo cambieremo. Spero che il resto sia almeno leggibile. Ti scrivo un’e-mail tra circa un mese e poi vediamo. Ciao». E se ne andò, lasciandomi con un leggero dubbio in testa…

Mi scrisse dopo due settimane, chiedendomi di chiamarlo urgentemente, e al telefono mi sputò il suo tremendo verdetto: «Ci sono dei problemi. Tutta la seconda parte, dalla metà in poi, è una merda. Bruciala. Scrivimi 30 cartelle entro la prossima settimana tenendo presente che…». Non ascoltai più nulla. Dovevo ancora digerire l’idea che mesi di lavoro (e perfezione) sarebbero scomparsi con un semplice click.

La terapia d’urto aveva fatto il suo dovere. Misi da parte l’orgoglio e accettai. Qualche mese dopo uscì il mio primo romanzo, A tempo perso viviamo tutti i giorni, e fu un piccolo successo, merito soprattutto di uno stile, una struttura e una tematica che ora avevano un senso e una consapevolezza. Merito, senza ombra di dubbio, di un ottimo editing.

Ma cosa si intende davvero per “editing”? 


La definizione esatta è: la cura redazionale di un testo per la pubblicazione, cioè lettura attenta che controlla la correttezza di ortografia, grammatica, sintassi, ecc… (con un elenco che vi garantisco è ancora bello lungo). Insomma, un editing professionale serve a ribaltare come un calzino il testo che abbiamo scritto, e a far emergere al meglio le sue potenzialità: forma e stile, certo, ma anche e soprattutto la forza comunicativa, il contenuto e la coerenza della storia a seconda di quello che si vuole raccontare e al pubblico a cui ci si vuole rivolgere.

Dopo aver scovato un editor che sappia il fatto suo (evitate come la peste gli ex-scrittori mancati), esiste un solo modo per affrontare questo temuto lavoro. E non è un esercizio pratico, ma un atteggiamento: una forma mentis indispensabile e imprescindibile. Ad alcuni verrà naturale o apparirà semplice, forse, ma vi garantisco che, appena il vostro prezioso romanzo e le vostre doti verranno giudicati e messi in discussione, vacillerete anche se avete sempre avuto i piedi ben piantati a terra. E allora siate pronti a mettere sul piatto della bilancia gli unici due valori fondamentali: la fiducia e l’umiltà.

La fiducia che riponiamo nella persona scelta per fare a pezzi il nostro lavoro deve essere assoluta. Se dubitiamo delle sue scelte anche solo per un istante, o pensiamo che non sia in grado di capire quello che volevamo dire attraverso i voli pindarici delle nostre subordinate colme di avverbi e aggettivi, stiamo solo perdendo tempo. L’umiltà è la conditio sine qua non per far sì che il nostro testo possa migliorare, e non solo: ci permette di vedere dove stiamo sbagliando, anche se siamo convinti del contrario.

In quel mio famoso primo e violento editing, mi fu contestata una delle frasi che più amavo dell’intero romanzo. Luca me la cerchiò in rosso, aggiungendo a lato un commento sarcastico che trafisse la mia emotività: “Che poeta!!!”. Era una breve descrizione di una notte stellata nella quale il protagonista faceva riflessioni che avrebbero cambiato la sua intera esistenza. La buttai. Cancellata per sempre.

Lo sforzo di fiducia e umiltà che feci mi aiutò a comprendere quanto ancora fossi lontano da una reale padronanza della lingua, da una maturazione consapevole di uno stile personale, da una capacità concreta di raccontare con efficacia quello che avevo nella testa. Quindi, affidatevi completamente e deglutite senza esitare le tonnellate di bocconi amari. E se vi sentite feriti, arrabbiati e delusi, con l’irrefrenabile tentazione di piazzarvi sotto casa del vostro editor e spaccargli la faccia, allora vuol dire che lo avete scelto bene.

Superata la terapia d’urto, non crediate che le esperienze successive siano meglio. A mano a mano che si diventa abili nella scrittura, lo sforzo di fiducia e umiltà deve essere maggiore. Essere consapevoli del nostro lavoro ci fa sentire al sicuro, e ci illude. Ci convinciamo che non sarà più un cimitero di cose da correggere e da riscrivere. E invece…

In questo momento mi sto dedicando all’editing della novella che mi ha impegnato negli ultimi mesi (e che uscirà all’inizio dell’autunno, finalmente). Che volete che vi dica? Ci sono cascato. Ho atteso il file con trepidazione, ansioso di dimostrare a me stesso che, dopo gli ultimi dieci anni di esperienza (anche se incostante e accompagnata da un duro lavoro parallelo), le obiezioni e gli errori sarebbero stati pochi, giusto una rifinitura da perfezionista. Certo, come no… La bozza è tornata coperta da tanti di quei segni che neanche Freddy Krueger al suo meglio.

Ma non me l’ha ordinato il medico di scegliere Alessandra Zengo. L’ho voluta io, per la sua fama di editor intransigente e spietata. Quindi, dopo aver mandato giù un aspro pranzo di nozze, le ho concesso tutta la fiducia necessaria.

Quindi, in pratica, cosa succede al manoscritto quando si affronta un editing? 


È semplice. Il primo lavoro è sempre uno sguardo generale, che coinvolge soprattutto struttura e coerenza del testo. S’individuano i temi principali: emergono o restano imprigionati in un incastro poco efficace? L’intreccio convince o c’è spazio per aggiustamenti? In questa fase capita spesso di dover riscrivere capitoli interi, o spostarne altri. Stiamo lavorando alle fondamenta della casa, e quelle non possono essere di gelatina.

Poi si passa all’ecatombe, ovvero all’analisi di ogni singola frase, di ogni aggettivo, di ogni segno di punteggiatura… alle cose da eliminare, sistemare, migliorare, riscrivere ancora. Si chiama revisione e, purtroppo per lo scrittore, non ne basta una sola. Il mio primo romanzo ne ha viste sei.

Dopo essere sopravvissuti a questa tortura, il romanzo è finito! L’editor che ci ha costretti a faticare così tanto (e a sputare qualche litro di sangue) sarà fiero di noi e ci dirà che finalmente siamo pronti a conquistare il mondo e rivoluzionare la lingua italiana? Falso! Dopo a fiducia e l’umiltà che gli avevo concesso, Luca mi disse: «Bene, ora almeno è leggibile».

1 commento:

  1. ...per la poesia funziona allo stesso modo?! Stesse forche caudine? Racconta please e grazie per ora

    RispondiElimina